Racconto: Trucco del mestiere

La lavagna a muro era talmente piena di segni da perdere quasi l'abituale colore nero.
Le mani dell'uomo correvano sulla sua superficie aggiungendo lettere e numeri ai tantissimi già presenti in una cacofonia incomprensibile.
L'aria era satura di gessetto polverizzato che aleggiava in una spessa nebbia bianca, ma l'uomo non sembrava accorgersene intento com'era nel tracciare espressioni e algoritmi.
L'addensarsi del pulviscolo pareva essersi particolarmente infittito alle spalle della figura al lavoro fino a formare la parodia di una mano gigantesca, completa di nocche e falangi.
E artigli.

- Per l'amor del cielo, ma cos'era quello?
- Veramente dovrebbe dirmelo lei, ma è pronto per un altro giro?

Nutrie.
Castori grossi come gatti, ma dall'aspetto di topi.
Di solito si nutrono di erbe e piante, ma non questi...
Una decina sono ammassati attorno a una carcassa intenti a divorarne la carne con compiaciuta e lenta perizia.
Una in particolare ha staccato dalla carogna un grosso brandello di quello che doveva essere un naso, mentre un'altra addenta un bulbo oculare.
L'occhio dall'iride color blu sotto la morsa della mascella della nutria esplode come un palloncino.

- Tutto ciò è una follia...
- Non si preoccupi. Abbiamo quasi finito.

Quattro figure si stanno avventando su una quinta stesa a terra in una difensiva posizione fetale.
Gli aggressori sono giovani, hanno da poco superato la ventina, vestiti di scuro con abiti dall'aspetto militare e dalla testa rasata.
Naziskin.
I quattro, armati di mazze e catene, infieriscono selvaggiamente su un uomo di colore molto anziano, che ride sguaiatamente sotto la violenta gragnola di colpi.
I ragazzi arrestano la loro furia per un attimo, interdetti dalla reazione della loro vittima: sono coperti di sangue, sui vestiti e sui volti.
Lordi di striature rosse.
Grazie alla pausa l'uomo di colore riesce faticosamente a alzarsi, ma continua nella sua irridente e acuta risata: il viso gonfio e deformato dalle botte, i denti spezzati.
I Naziskin sono sempre più interdetti, quasi spaventati da quell'incomprensibile reazione, ma è troppo tardi...
Il sangue di cui sono coperti prende fuoco come Napalm.

Tornò al suo ufficio senza una soluzione di continuità: seduto alla sua poltrona preferita come tutto era cominciato.
E davanti a lui sempre quel buffo ometto.
- Allora signor Talbot, che ne pensa di questa prova?
L'uomo parlò con un leggero sorriso a mezza bocca, mentre con la mano sinistra toglieva un grosso elettrodo dalla base del collo dell'uomo.
Talbot si sentiva ancora troppo esterrefatto per parlare: si limitò a tacere per parecchi secondi, mentre l'ometto arrotolava un piccolo cavo e riponeva nella tasca della giacca l'apparecchio a cui era collegato.
- E' stata una esperienza incredibile, non avevo forse ragione?
Ha detto di chiamarsi Andrews, ma nemmeno questo ha molta importanza ora: le immagini erano ancora livide, reali.
- Lei mi ha drogato?
Il semplice biascicare queste poche parole gli risultò faticosissimo, quasi estraneo.
Andrews si limitò sorridergli di rimando, come un maestro troppo indulgente con uno scolaretto che ha appena detto che 2 più 2 fa 5.
- Signor Talbot, io sono un neurologo, non un pusher. Il macchinario di mia invenzione non induce alcun tipo di stato allucinatorio o psicotropo, ma si limita a metterla in contatto con la sua creatività subcosciente. Niente di più.
L'ometto si mise a sedere nell'altra poltrona dell'ufficio, continuando affabilmente.
- Ciò che ha visto è semplicemente farina del suo sacco.
L'inconfessata verità di quelle parole colpì Talbot nell'intimo: non gli stava mentendo, ne era certo.
Anche se non sapeva come.
Tacere allora parve a Talbot la scelta migliore.
- Vede... il nostro cervello continua a livello inconscio a elaborare le informazioni apprese durante il giorno, specie nel sonno. Solo una piccola parte giunge alla parte conscia attraverso quelli che chiamiamo sogni.
Andrews lasciò passare una pausa di qualche secondo affinché quanto aveva detto sedimentasse.
- Caro signor Talbot, io fornisco una finestra su questa parte del cervello... Dietro compenso naturalmente.
E quando Andrews sorrise di nuovo, Talbot comprese cosa doveva aver visto Lewis Caroll nel descrivere lo Stregatto in Alice nel paese delle meraviglie.

Intervistatore: E' per me un vero onore (oltre che un piacere) ospitare qui oggi, nella rubrica dedicata alle interviste agli autori, una vera leggenda dei romanzi horror, Blake Talbot.
Fra i cultori del genere il nome di questo quarantacinquenne scrittore di Seattle non ha certo bisogno di presentazioni, ma per i neofiti mi sembra giusto e doveroso fare una piccola digressione.
Il nostro Blake esordisce giovanissimo quasi un quarto di secolo fa sfornando una impressionante serie di bestsellers che sconvolgono e ridisegnano l'immaginario orrorifico collettivo per i successivi quindici anni.
Poi purtroppo una profonda crisi creativa lo portano scrivere in sequenza cinque romanzi mediocri, culminati con (e mi duole ricordarlo) il flop editoriale Teatro di sangue di quasi un anno e mezzo fa.
Poi oggi il riscatto: il nuovo lavoro Incubi (a detta di pubblico e critica uno dei suoi lavori migliori) segna un decisivo ritorno alle origini, costellato di idee e trovate illuminanti.
Ma veniamo alla prima domanda, tanto semplice quanto banale: che cosa è cambiato?

Risposta: A dire la verità assolutamente niente. Forse sono diventato molto più critico su quello che scrivo e questo mi ha portato a essere maggiormente selettivo.
Per il resto il mio metodo di lavoro è lo stesso.

Domanda: So a questo punto di risultare antipatico, ma concorderai con me che i tuoi ultimi lavori avevano suscitato più di una critica negativa. Con Incubi sei invece riuscito a stupire tutti... Come hai fatto?

Risposta: In tanti anni che scrivo, ho capito poche realtà fondamentali: la tecnica la puoi imparare (e non stupisce l'incredibile proliferare di corsi e libri di scrittura creativa), lo puoi copiare o imbastardire, ma le idee no...
Quelle o ce le hai o non ce le hai. Non si scappa.

Domanda: Mi stai dicendo di aver riscoperto in te stesso una vena creativa che pensavi di aver perduto?

Risposta: Ci sei andato più vicino di quello che pensi. Una persona conosciuta di recente mi ha fatto notare come molti scrittori soffrano di una sorta di sindrome del bestseller.
L'editoria moderna impone, specie a un autore di successo, tempi di stesura e lavorazione molto ridotti e sincopati; l'industria libraria fagocita romanzi a una velocità impressionante, costringendo noi scrittori a veri tour de force produttivi.
Domanda: Insomma lo stress da superlavoro potrebbe avere come effetto collaterale quello di produrre libri scarsa qualità?

Risposta: Si e no. Mi sembra evidente che questo impulso spinto a pubblicare induce gli autori a auto-censurarsi in fase creativa: lo scrittore è portato a pensare al suo lavoro con un'ottica di pubblicabilità o di vendibilità.
Questo fa scadere di qualità il risultato finale.
Non è un caso se i migliori lavori di molti autori risultano essere i primi nell'arco di una carriera.
Agli esordi si tende a scrivere per il puro piacere di farlo, liberi da tensione e spinti da una incontaminata pulsione creativa.

Domanda: Il tuo sembra quasi un discorso filosofico e impone una inevitabile domanda finale: come sei riuscito a rigenerare quella che hai definito “incontaminata pulsione creativa”?

Risposta: Questo, se mi consenti, è e rimane un mio piccolo trucco del mestiere personale.

Intervistatore: E con questa criptica risposta finale si chiude l'intervista a Blake Talbot, ringraziandolo per la disponibilità dimostrata.
Non posso però esimermi dal chiudere la trasmissione di oggi con una piccola considerazione personale.
Quest'anno è stato segnato dai decisi ritorni ai fasti di un tempo di grandi autori: prima Frank Mallard nella fantascienza e poi Paul Wilkings nel thriller.
E adesso Blake Talbot.
Speriamo che continui questa tendenza, perché si ha sempre bisogno di buoni romanzi.

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